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giovedì 18 gennaio 2007

D'Alema di' qualcosa...

Sono lontani i tempi in cui Nanni Moretti nel suo “Aprile” tirava fuori quella indimenticabile battuta, capace di sintetizzate in un motto di spirito la sensazione inconfessabile di disagio che attanaglia noi cosiddetti “progressisti” quando la parte politica che per storia e ideologia più ci rappresenta assume responsabilità di governo: “D’Alema, dì qualcosa di sinistra!”. Sono lontani quei tempi, perché l’attuale Ministro degli Esteri ha imparato la lezione. Ora le cose “di sinistra” le dice. Il problema, semmai, è che non le fa. E come lui molti dei suoi colleghi. “Il Governo non condivide la politica dell’attuale amministrazione americana”. Benissimo. “La guerra in Iraq è stata un errore”. Chapeau. Ma poi che ti va a combinare l’allegra brigata delle bandiere arcobaleno? Semplice: prende le distanze dalla politica imperialista (che termine desueto, non va più di moda me ne rendo conto, ma tant’è) e d’aggressione dei teo-con, condanna con fermo rigore morale le carneficine “chirurgiche” di migliaia di innocenti, ma poi fornisce senza colpo ferire all’”alleato” a stelle e strisce ciò di cui ha bisogno per perseverare nella propria folle stategia. Hai visto mai che si incazzassero sul serio? Ospitare un centinaio di testate atomiche sul suolo nazionale, noi che costituzionalmente ripudiamo la guerra e abbiamo firmato il trattato di non proliferazione nucleare, non è già abbastanza? Hai voglia a dire “E’una decisione del Consiglio Comunale”, “E’colpa del vecchio governo”, “Non è questione politica, ma urbanistico-amministrativa” (bella questa, eh? E’ la mia preferita). Comodo sventolare le bandiere in piazza e poi optare per il bieco compromesso quando si sta sulla poltrona. Certo, occorre dirlo, in parte la discontinuità promessa in campagna elettorale c’è stata: il ritiro dall’Iraq, la via dell’equi-vicinanza in Palestina, la vicenda del rapimento di Abu Omar. Ma ciò non toglie che stavolta bisognava dire no. Poco, anzi pochissimo importa che gli americani avrebbero semplicemente spostato la base in Germania, cioè a poco più di un tiro di schioppo. Poco importa che si tratta dell’ampliamento di una base pre-esistente. Poco importa che dal punto di vista di un atteggiamento pragmatico e di real-politik fosse la cosa più sensata da fare, oltre che, ovviamente, la più remunerativa. E’il principio che non va giù: 60 anni di sovranità limitata sono fin troppi, quanto dovrà continuare? Tutto cominciò a Jalta quando nella più decisiva partita di Risiko della storia, l’Europa fu tagliata a fetta e l’Italia capitò dalla parte della coca-cola che risultò, per carità va detto, assai più digeribile della vodka, ma non meno corrosiva. Arrivarono i soldi del Piano Marshall, la ricostruzione, il boom e il miracolo italiano, tutto compreso nel prezzo fissato dal cugino d’Oltreoceano. Volete il benessere economico, il consumismo, i blue jeans? E quello avrete! Quanto ne volete, prendetene pure, è tutto pagato. Tante volte ho avuto modo di dire che se l’alternativa erano baffetto e baffone allora è andata certamente bene come è andata. Ma qualcuno mi vorrà un giorno spiegare perché non dovremmo pensare che un’altra via non fosse possibile? Il tabù storico del socialismo democratico, la speranza di conciliare le istanze di uguaglianze e solidarietà con la trasparenza e le garanzie della vita democratica (inviso tanto agli Usa quanto all’Unione Sovietica naturalmente), stroncato sul nascere in ogni dove sembrava ci fossero le pre-condizioni: nel Cile di Allende, dove con lo zampino della Cia ci pensò Pinochet a rimettere le cose a posto, in Grecia, in Nicaragua e in Italia naturalmente, dove c’è ancora una famiglia, quella dell’Onorevole Moro, che chiede inutilmente giustizia e verità. Tutti o quasi conoscono il Piano Marshall, pochissimi hanno mai inteso nominare il Piano Demagnetize, l’altra faccia della medaglia. In quel documento ancora oggi coperto da segreto militare (l’amministrazione Clinton ha desecretato moltissimi fascicoli riservati prodotti dall’intelligence americana durante la guerra fredda, ma degli accordi fra Usa e Italia stipulati all’indomani della fine del conflitto mondiale neanche a parlarne) veniva posta (diverse mezze ammissioni vi sono state a riguardo da uomini politici italiani e americani), una condizione “sine qua non” perché l’Italia potesse contare sul protettorato Usa: la rinuncia, con ogni mezzo lecito ed illecito, a svolte a sinistra nell’orientamento politico nazionale. Il resto è storia in buona parte (purtroppo) poco nota: l’esclusione delle sinistre dal governo nel maggio del 1947 che segnerà per sempre la rottura dell’unità nazionale resa possibile dalla Resistenza (pochissimi mesi dopo, guarda un po’, rispetto al viaggio di De Gasperi negli Usa); la formazione delle cosiddette reti “stay-behind” (prima Duca, poi Gladio), formazioni paramilitari pronte all’intervento in caso di ascesa al potere delle forze politiche invise all’alleato atlantico; la strategia terroristica della tensione, la P2, i servizi segreti deviati, il delitto Moro e tante altre pagine fra le più tristi e gravi del nostro passato recente. Oggi che il “pericolo comunista” è morto (al di là dei piagnistei elettorali di Berlusconi) e il fantasma maccartista ha esaurito la propria capacità catalizzatrice, pronto in tavola c’è il degno sostituto: la lotta globale al terrorismo islamico. Vi fa più paura il Corano o temevate di più il libretto rosso di Mao? Stalin o Bin Laden? Al Qaeda o la Stasi? Scegliete pure liberamente, tanto il prezzo del biglietto è sempre lo stesso: terrorizzare per imporre la rinuncia alla libertà di progettare senza condizionamenti la propria società, ad un modus vivendi alternativo agli schemi preconfezionati del capitalismo feroce (che ha vinto) e del collettivismo forzato (che ha perso), all’autodeterminazione del popolo sovrano.
Jean Luke


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